giovedì 22 settembre 2011

I boss "proprietari" di Rosarno e dintorni condannatti a maxirisarcimento

Il crimine non paga. O meglio, è costretto a pagare. È un risarcimento record quello che il Gup di Reggio Calabria, Roberto Carelli Palombi, ha imposto al clan Pesce, da decenni padrone di Rosarno e del suo comprensorio. Per il danno provocato con la propria attività criminale, i boss dovranno versare 50 milioni di euro al Comune e 10 milioni di euro ciascuno a Regione Calabria e Ministero dell’Interno. Denaro che potrà trasformarsi in scuole, servizi sociali, case popolari, strade. Denaro che tornerà in mano a quella stessa popolazione per decenni schiacciata dallo strapotere mafioso dei Pesce. Del resto, si tratta di un patrimonio che i boss in anni e anni di attività criminale hanno accumulato proprio alle spalle della comunità. Aziende, immobili e società – incluse due squadre di calcio dilettantistico, la As Rosarno e la As Dilettantistica Cittanova Interpiana Calcio – che la magistratura ha sequestrato e adesso potrebbero tradursi in confische definitive, necessarie per monetizzare il milionario risarcimento che la ndrangheta deve ai cittadini di Rosarno. Un paese che la cosca ha sempre considerato “cosa propria”, come ha avuto modo di lasciar intendere il boss già detenuto Rocco Pesce, in una minacciosa missiva recapitata alla fine di agosto al sindaco del paese, Elisabetta Tripodi. Mai, l’amministrazione guidata dalla giovane prima cittadina avrebbe dovuto costituirsi parte civile nel processo contro la famiglia Pesce, perché – scriveva il boss - “ritengo di non aver recato alcun disturbo al quotidiano cittadino e tanto meno inquinato l’aria che respirate”. Ma quel disturbo per i magistrati c’è stato. E vale cinquanta milioni di euro.
È una mazzata durissima per la cosca, che viene colpita non solo sul fronte patrimoniale, ma anche decapitata nella sua struttura di comando. Tanto il capo riconosciuto, Vincenzo Pesce, come il nipote Francesco, considerato il reggente del clan dopo l’arresto del padre Nino e dello zio Rocco, dovranno scontare vent’anni di carcere. Dieci anni dietro le sbarre dovrà passare anche Domenico Arena, cognato e sodale di Vincenzo Pesce. Decisiva per inchiodare i tre, la testimonianza di Giuseppina Pesce, parente dei tre condannati. Nel comminare la pena, il giudice Carelli Palombi ha tenuto conto dei verbali di interrogatorio nei quali la collaboratrice ha descritto minuziosamente ruolo e caratura del cugino Francesco, dello zio Vincenzo e di quel Domenico Arena, che proprio lei, con le sue dichiarazioni, ha fatto arrestare. Ma la testimonianza di Giuseppina -che alcuni mesi fa ha iniziato spontaneamente a collaborare, per poi tirarsi indietro su pressione della famiglia e solo di recente ha ricominciato a parlare con i magistrati di Reggio Calabria – è stata fondamentale anche per far cadere la rete di prestanome che per decenni hanno fatto da scudo alla famiglia Pesce. Parole che Francesco Pesce, conosciuto come Ciccio “Testuni”, ha definito millanterie, chiacchiere in libertà. Ma che la Procura ha preso decisamente sul serio.
Come altrettanto sul serio, i giudici hanno preso le parole di un altro pentito, Consolato Villani, che ieri ha testimoniato nel corso di un altro processo in corso al tribunale di Reggio Calabria. Villani non è un uomo qualunque. Ha alle spalle condanne pesanti , trent’anni di reclusione per l’omicidio dei due carabinieri Fava e Garofalo, assassinati in un agguato nei primi anni ’90, e parentele altrettanto pesanti, quel clan Lo Giudice che si sospetta responsabile della stagione delle bombe l’anno scorso a Reggio Calabria. In aula è stato chiamato a chiarire la posizione e caratura del boss Carmelo Murina, con il quale era in rapporti.. Ma al di là delle dichiarazioni che hanno inchiodato Murina, ritenuto il capo della zona di Santa Caterina, periferia nord di Reggio Calabria, la testimonianza di Villani si è trasformata in un atto d’accusa nei confronti di tutta la ndrangheta: ““Ho reso dichiarazioni contro il mio stesso sangue ed è una cosa che non auguro a nessuno. Ma sono fiero di quello che ho fatto. Chiedo perdono alle famiglie dei due carabinieri e chiedo a tutti gli uomini della criminalità organizzata di collaborare. Non siamo uomini, siamo bestie, ma insieme possiamo sconfiggere la ‘ndrangheta”.

Alessia Candito

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